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  • 09/12/2013 Svizzera-Cina, accordo con vista sull'Europa

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Per Pechino, potrebbe rivelarsi la mossa del cavallo. Investire in Svizzera per
raggiungere l'Unione europea. O almeno per mandare un segnale chiaro a
Bruxelles. È questo uno degli obiettivi dell'accordo di libero scambio che
Berna e Pechino hanno firmato a luglio e che entrerà in vigore l'anno prossimo.


Grazie all'intesa fra i due Paesi, sui beni svizzeri in uscita e su quelli
cinesi in ingresso vengono abbattuti i dazi doganali, che oggi penalizzano
soprattutto i prodotti del lusso, ma anche la farmaceutica e la meccanica. E
questo è un dato di fatto. Ma che succede se un'azienda straniera si stabilisce
in Svizzera e da qui esporta in Cina? O se un'impresa di Pechino investe a
Berna e poi esporta in uno dei Paesi dell'Unione? Succede che, grazie all'accordo
di libero scambio tra la Svizzera e la Ue del 1972, entrambe le imprese lo
possono fare a dazio zero.

Ipotesi accademica? «La questione ha una sua logica», ammette Romeo Orlandi,
presidente del comitato scientifico dell'Osservatorio Asia e docente di Economia
dell'Asia orientale all'Università di Bologna. «A guadagnarci – prosegue il
professore – potrebbero essere le imprese del lusso, italiane ed europee, che
esportano verso la Cina. Ma anche i produttori di vino, presi di mira dalle
autorità di Pechino come rappresaglia contro i dazi sui pannelli solari cinesi
voluti dalla Ue». Anche Philippe Praz, direttore dello Swiss Business Hub
Italia, è possibilista: «Finora le aziende italiane interessate a investire in
Svizzera non hanno messo l'accordo Pechino-Berna tra le motivazioni che le
spingono a farlo. Però è vero che una volta in Svizzera, un'azienda italiana
avrà le stesse condizioni di un'impresa locale».

Aprire una filiale in Svizzera però non è abbastanza. L'accordo di libero
scambio funziona se il prodotto può essere qualificato come "made in
Switzerland": non basta farlo transitare dai cantoni, occorre che lì venga
rilavorato, per potere essere nazionalizzato come svizzero. Lo dicono le
cosiddette rules of origin, le norme per stabilire l'origine di un prodotto. E
qui vengono i primi problemi: «In media le normative internazionali prevedono
che per essere qualificato come nazionale un prodotto debba aver acquisito in
quel dato Paese più del 50%, spesso anche il 70%, del suo valore aggiunto»,
spiega Lucia Tajoli, che insegna Economia Internazionale al Mip Politecnico di
Milano. Dunque etichettare una bottiglia in Svizzera non basta, per rendere un
vino italiano made in Switzerland: «Ecco perché credo – prosegue – che la
portata di questo accordo per i Paesi terzi sarà limitata».

La materia però è controversa: «Nell'era della globalizzazione – sostiene il
professor Orlandi – chi può garantire la vera identità di un prodotto? Ad
esempio, il 60% di tutte le merci in uscita dalla Cina, cioè quelle che noi consideriamo
l'export cinese nel mondo, in realtà deriva da investimenti di multinazionali
straniere».

Su una cosa, gli esperti concordano: se qualcuno è destinato a guadagnarci di
più, da questa triangolazione, quella è la Cina. «Il rapporto è di uno a tre»,
esemplifica Romeo Orlandi: per ogni azienda italiana - o tedesca, o francese,
il discorso vale per qualsiasi Paese Ue - che utilizzi la Svizzera come
trampolino per la Cina, sono almeno tre le imprese di Pechino che utilizzeranno
Berna come hub verso i membri della Ue. Gli fa eco Lucia Tajoli: «L'accordo di
libero scambio facilita gli investimenti di Pechino in Svizzera: se dall'intesa
le imprese elvetiche hanno da guadagnarci un immenso mercato per i loro
prodotti di lusso, le aziende cinesi in cambio ricevono dalla Svizzera una
porta d'accesso per i Paesi del Vecchio Continente». I giornali elvetici sono
andati addirittura oltre: all'indomani della firma dell'intesa, si è parlato di
Svizzera come della piattaforma finanziaria cinese in campo commerciale e degli
investimenti diretti in Europa.

Il Canton Ticino diventerà "Canton Pechino"? È presto per dirlo.
«Certo è che per la Cina l'accordo con la Svizzera ha un forte valore politico
– conclude Orlandi – anche senza il consenso della Ue, Pechino mette indiscutibilmente
un piede in Europa». Bruxelles è avvisata.

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